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Per Aspera Ad Veritatem n.14
L'altra strategia: il sistema cinese in evoluzione

Fabio MINI




Pubblichiamo di seguito il testo di una conversazione con Fabio MINI, autore, tra l'altro, di un recente volume (L'altra strategia - F. Angeli Editore) che si sofferma con attenzione e rigore su molteplici aspetti della realtà cinese, oggi certamente meno distante, anche dal punto di vista culturale e intellettuale, di un tempo.
I temi trattati paiono di particolare interesse nell'ambito di questo numero della Rivista che già ospita la recensione del testo "Chinese Intelligence operations", di EFTIMIADES, nella Parte V.

D. Lo studio della strategia militare di una nazione può aiutare a comprenderla meglio, anche in settori che, ad un esame superficiale, possono apparire distanti dalla guerra come l'assetto sociale nel suo insieme ed il sistema produttivo in particolare?

R. (Mini) Ritengo di sì. In questo campo lo studio della strategia orientale può essere di enorme aiuto. Innanzitutto perché, mentre in occidente la strategia è tradizionalmente legata alle operazioni militari, in oriente essa da sempre è intimamente connessa alla vita politica e sociale. Intendiamoci: la strategia è comunque legata alla guerra. Nella concezione occidentale e in quella orientale. La parola strategia, dal greco stratos agein, significa infatti condurre l'esercito e lo stratega o strategos è il capo civile o militare dell'esercito, colui che deve affrontare la guerra nel momento in cui la città, lo stato, la nazione si rivolgono a tale mezzo per conseguire determinati obiettivi. Anche nella cultura cinese la parola strategia si identifica con la guerra, ma, in particolare, con i suoi schemi.
Strategia è tradotta infatti Zhànluè in cui il carattere Zhàn significa guerra e Luè significa schema, schizzo, disegno approssimativo. Se quindi vogliamo cogliere una prima differenza concettuale tra occidente ellenico e oriente sinico possiamo notare che mentre in un mondo la strategia è la conduzione, la direzione, il comando delle forze e delle risorse per la guerra, nell'altro la parola strategia indica in prima approssimazione lo schema generale, non particolareggiato, della guerra. Uno schema in cui sono chiare le finalità, ma che tratteggia appena i mezzi e le modalità d'azione. Perché ho usato l'espressione "in prima approssimazione"? Perché la lingua cinese non sarebbe tale se non fosse fatta di "scatole cinesi". L'idea della guerra suggerita dall'ideogramma Zhàn è infatti formata da altre due idee primigenie corrispondenti ai due caratteri che la compongono: uno è l'alabarda, l'arma, l'altra è la divinazione, l'oracolo, il disegno divino. Significato ulteriore di questo secondo carattere è occupare, conquistare, conseguire un risultato favorevole. Con l'aggiunta di un ulteriore carattere (xue, che sta per insegnamento) si ottiene "zhanluexue" che vuol dire teoria strategica. Un'altra espressione del concetto di strategia è "celue". Il carattere "ce" è composto da due parti: bambù e legno. "Ce" ha tanti significati, uno dei quali è metodo, un metodo quasi scientifico e comunque di valore tale da meritare di essere scritto e tramandato: nella Cina antica, si scriveva sul "ce", la striscia di bambù. "Celue" individua quindi sia la linea politica, teorica e metodologica sia la forma o maniera di lotta militare e politica. C'è, poi, la parola "jimou", dove "ji" sta per programma, piano, idea, e "mou" equivale ad astuzia e abilità. La strategia assume qui la sfumatura non insignificante di elaborazione dinamica della pianificazione e dell'esecuzione in relazione allo sviluppo della situazione e alle varie opportunità che si possono presentare. L'unione di "ji" e "ce" è lo stratagemma, la trovata geniale, l'espediente che, per la sua efficacia o la provata e duratura validità, assurge a norma universale e atemporale. La differenza sostanziale tra oriente e occidente, in ogni caso, non è tanto nella connessione tra azione strategica e guerra quanto negli scopi e nelle modalità della strategia: in occidente è la condotta, il comando delle forze per la guerra, quasi che fosse un'azione separata e successiva alla politica, in oriente è il conseguimento di un risultato politico, sociale o personale di alto valore. Un valore che richiede la divinazione o l'interrogazione delle forze superiori e tutte le energie intellettuali e le abilità individuali. Considerando che la capacità di divinazione (che poi sarà la capacità di fare da tramite tra mondo terreno e mondo ultraterreno) in oriente era la qualità dei capi-sciamani-preti-guerrieri posti alla guida di un clan, di un popolo, di una tribù o di una confederazione, fino ad arrivare ad un impero, risultano evidenti le intime connessioni tra strategia e politica, tra guerra e politica, tra società e politica, tra guerra e società e tra comportamenti individuali e collettivi organizzati. In queste connessioni linguistiche e grafiche (ma nelle lingue ideografiche i segni sono appunto idee e non soltanto rappresentazione di suoni più o meno gutturali) sta la prima e, secondo me, sostanziale differenza nella concezione della guerra e quindi della strategia. Nessuno stratega cinese classico si preoccupa di definire la guerra. Sa, perché è conscio dell'idea, che essa è una eventualità della vita dello Stato. La politica si identifica quindi nella guerra e la strategia è in effetti la prassi della politica. La mentalità occidentale, invece, ha cercato di separare i due ambiti fin dai primi periodi di razionalizzazione delle entità statali, portando a civilizzare la politica e a militarizzare la guerra, ponendole una contro l'altra o una in successione all'altra in un dualismo razionale ma innaturale. Almeno per i cinesi.
Clausewitz, del cui pensiero sono impregnate la strategia e la politica occidentale moderna, aveva intuito da una parte la necessità cartesiana di separare guerra e politica, strategia militare e azione politica, e dall'altra la difficoltà di rendere l'operazione chiara. Egli si preoccupa di definire la guerra e per ogni suo aspetto o condizione individua una definizione diversa: giusta, razionale, ma parziale. In questo sforzo di parzializzazione, di isolamento dei significati e dei valori da attribuire alle parole, descrive in maniera somma le sfumature della guerra, le tattiche per condurla, le predisposizioni e le condizioni per vincerla, ma non riesce (forse gliene è mancato il tempo) a rendere il significato globale della guerra e della strategia. La visione razionale del suo tempo, unita a quella romantica dell'anelito per la verità e la libertà, ha di fatto impedito un approccio di cui gli orientali sono invece, direi geneticamente, impregnati: quello olistico, totalizzante, che consente di vedere e intuire i processi, le dinamiche, il divenire delle cose in un quadro globale di riferimento. Alla mentalità lineare della sequenza ragionativa occidentale si contrappone quella analineare (e per noi talvolta illogica) degli orientali. Una mentalità che in qualsiasi occasione valuta le interazioni tra gli opposti-complementi, tende al raggiungimento di equilibri dinamici, non statici, ma non si spaventa - ed è ormai da millenni abituata ad affrontarli - dei disequilibri, delle disarmonie, delle conflittualità e delle aberrazioni della vita politica e di quella quotidiana.
Queste dimensioni fanno della concezione della politica, della strategia, della guerra, della pace, degli obiettivi e dell'armonia un insieme interattivo che ispira la prassi e i comportamenti degli uomini come degli stati.
La cultura occidentale di quest'ultimo mezzo secolo si sta avvicinando molto all'approccio olistico. E' un bene o un male? Non lo so, ma certamente è un modo per ampliare la conoscenza.
La strategia, in particolare, è stata tra le prime espressioni ad essersi avvicinate alle concezioni orientali, ma quasi paradossalmente non nel campo militare. Nonostante le frequenti citazioni di Sunzi, l'unico classico cinese "orecchiato" in occidente, il pensiero strategico orientale è lontano anni luce dalla strategia militare applicata in occidente. La strategia, però, non è più soltanto lo strumento della guerra o l'arte della condotta delle armate, ma è sempre di più l'insieme di strumenti per vivere nel mondo. Le strategie sviluppate nei secoli dai generali orientali e occidentali per condurre le guerre o per gestire gli stati sono studiate e applicate nei campi più disparati. Esse hanno trovato ambienti di elezione nell'economia, nell'industria, nella finanza, nel commercio, nel marketing, nella comunicazione, nel management; ma anche le piccole strategie e gli stratagemmi (entrambe le parole provengono dalla stessa radice) sviluppate nei millenni dagli orientali per sopravvivere al confronto quotidiano con i molteplici aspetti contraddittori e allo stesso tempo complementari che caratterizzano la vita degli uomini, si stanno diffondendo in occidente.
I comportamenti dei nostri giovani, le tendenze alla comprensione più estesa della natura, degli equilibri delle cose e del mondo sono alcuni dei molti sintomi di revisione profonda del sistema di pensiero della nostra società. Oggi non sono più in pochi a vedere nelle aberrazioni del comportamento umano una essenziale mancanza di strategia. Oggi tutti sono in grado di cogliere, se non il significato e le cause delle disarmonie, almeno il disagio che suscita la mancanza di una strategia. In politica, in guerra e nella vita di tutti i giorni. Oggi sono molti quelli che percepiscono che la linearità dei comportamenti improntati alla meccanica azione-reazione che ci portiamo come bagaglio (o fardello?) culturale dall'Illuminismo, non è strategia, anzi è la sua negazione. I giovani, in questo processo di revisione del pensiero, sono naturalmente e come sempre i più avanzati. Ma sono anche quelli maggiormente in crisi. Tra le percezioni e i comportamenti c'è sempre un notevole distacco. Ecco perché al rifiuto concettuale della violenza e delle logiche lineari del "martello e del chiodo" o "dell'occhio per occhio" i giovani stessi accompagnano comportamenti e manifestazioni esasperate, violente e istericamente lineari.
In campo politico e strategico-militare siamo ancora, invece, alla dicotomia. La logica occidentale, come si può vedere in questi giorni e come è apparso evidente durante la crisi del Kossovo, è nella separazione tra politica e azione militare con i due campi che rimangono divisi e con la sostanziale mancanza di strategia in uno e nell'altro.
Non vorrei però che da queste riflessioni sugli aspetti interpretativi della strategia si potesse intravedere una critica al nostro sistema di pensiero e la propensione personale per quello orientale. Ogni cultura ha la propria concezione strategica che tuttavia non è cristallizzata o soggetta esclusivamente alle caratteristiche ancestrali. Essa si sviluppa e si modifica continuamente in relazione alle esigenze, alle risorse e agli obiettivi del tempo e del luogo d'interesse. L'applicazione di altri principi, estranei al substrato culturale, in genere non avviene facilmente non tanto per pura miopia o sciovinismo, quanto per semplice ignoranza sulle alternative o perché non si realizzano le condizioni favorevoli per assimilarli. Non è neppure da intendere che il sistema orientale teorico appena delineato sia poi sempre applicato dagli stessi individui o stati orientali nei termini indicati. Anzi, molti di loro lo ignorano o lo rifiutano, anche se poi nei comportamenti più istintivi è possibile intravedere la base del sistema. Infine, non ritengo che a ciascun sistema si possano attribuire particolari meriti o demeriti di ordine etico e morale. Tutti i sistemi hanno consentito di raggiungere le vette dell'umanità e gli abissi delle nefandezze. La logica lineare può essere più rozza di quella analineare ma non per questo inefficiente e inefficace. Le strategie militari e le politiche occidentali hanno raggiunto risultati eccelsi e abominevoli esattamente come la politica-strategia degli orientali. Tuttavia la comprensione dei diversi sistemi culturali e il loro avvicinamento porterà ad una modifica degli atteggiamenti e soprattutto dei giudizi di merito che ora costituiscono vere e proprie barriere culturali e sono di per sé potenziali fonti di ulteriori conflitti.

D. Il pensiero militare cinese è rappresentato, nel suo libro che reca un titolo "L'altra strategia", che ora comprendiamo meglio, come una derivazione del pensiero filosofico e religioso. Sono presenti tratti caratterizzanti di questo pensiero che, mantenuti sino ad oggi, sono in grado di influire sul modo di percepire il mondo occidentale?

R. Sicuramente sì, ma bisogna distinguere tra i piani di pensiero. In tutta l'Asia di cultura sinocentrica il pensiero filosofico e religioso, o meglio la sintesi, il sincretismo delle varie tendenze, hanno una base solida e assolutamente valida anche oggi. Questa parte del mondo percepisce il resto del globo secondo le proprie chiavi culturali e alcune di esse sono quasi degli ostacoli alla comprensione reciproca. Ad esempio, la funzione dell'individuo nel contesto sociale. In quasi tutta l'Asia di influenza buddista l'uomo è parte del cosmo non come entità a sé stante ma come componente. Le sue qualità individuali non contano in quanto tali ma in quanto interagiscono con il resto. L'individualismo orientale è al servizio della collettività e l'uomo vale in relazione al suo contributo. Così come nella religione buddista il ciclo delle reincarnazioni dipende dal bagaglio di opere positive e negative accumulato nella vita biologica di qualsiasi forma, così nella vita dell'uomo il valore è in relazione al contributo dato alla società in genere e a tutte le sue forme associative: la famiglia, la fabbrica, la nazione ecc. A questo principio è collegato quello della gerarchia o del rango. In un mondo di meriti accumulati e acquisiti non da un singolo, ma da un gruppo o da una linea generazionale la posizione relativa è fondamentale e non è legata al significato individuale. Bastano questi esempi per indicare quanto distanti possano essere le posizioni con l'occidente e attraverso quali lenti ogni parte veda l'altra. In estremo Oriente le posizioni più distanti di ordine religioso, filosofico e sociale oggi sono quelle dei giapponesi che pur assomigliando sempre di più all'occidente e avendo ormai quasi completamente adottato costumi e atteggiamenti occidentali rimangono gelosi custodi di tradizioni e principi inaccessibili agli occidentali. Per questi aspetti e nonostante i jeans e la coca-cola o la perfetta conoscenza dell'inglese e dell'occidente, sono degli UFO. In oriente in genere, anche l'India, nonostante la colonizzazione britannica e l'apertura all'occidente, è fortemente influenzata nelle proprie valutazioni e nei propri comportamenti dalla cultura filosofico-religiosa. Quando noi pensiamo all'India come paese "misterioso" in effetti traduciamo il disagio di una incomprensione culturale che può essere anche di ostacolo.
Un altro aspetto di profonda differenza che può avere influenza sui rapporti e sulla comprensione viene dalla tradizione di organizzazione sociale. Cina e Giappone sono di tradizione imperiale. Vale a dire che nel passato, remoto e prossimo, hanno concepito lo Stato come insieme di realtà anche indipendenti comunque legate al potere centrale da vincoli di sudditanza di vario tipo: dipendenza diretta, asservimento, schiavitù, vassallaggio, tributo ecc. Nei sistemi imperiali tutte queste forme possono coesistere oppure alternarsi in sequenza. Sono quindi realtà vive in senso diacronico o sincronico. In particolare nella Cina imperiale, l'integrità territoriale non era essenziale ai fini della sopravvivenza dell'impero o dello Stato. Anzi, la dinamica di potere era tale da sostenere senza pericoli variazioni di confine, alleanze diverse, sudditanze alternate e così via. Se la Cina è riuscita a trasmettere l'idea di continuità culturale e politica millenaria è proprio grazie al sistema imperiale e non al fatto che un solo potere abbia dominato per secoli. Anzi, a ben vedere la maggior parte delle dinastie che hanno dominato sul celeste impero appartenevano a gruppi di potere non cinesi, quasi sempre definiti "barbari".
La Cina comunista ha deviato da questa linea non tanto per il sistema di potere politico e amministrativo, più o meno rimasto quello di stampo imperiale, quanto per la concezione stessa della giurisdizione statale e dei rapporti con le popolazioni incluse nella sfera limitrofa di potere o di cultura. Nei riguardi di tali aree residuali del precedente potere imperiale si è verificata una deviazione in un senso che si può definire imperialista, vale a dire concependo soltanto la forma di sudditanza diretta di tutti i componenti dell'impero. Quindi nella sua politica sono stati introdotti concetti come "riunificazione della madre patria", "integrità territoriale", "sovranità", "questioni interne", "nazionalismo" che irrigidiscono le posizioni di governo e precludono spazi di autonomia effettiva a quelle popolazioni che, pur non essendo cinesi e non essendo mai stati sudditi, vengono comunque ritenute parte integrante della Cina. Con i mongoli, i tibetani e gli uyguri, ma anche con i mancesi e le minoranze coreana, Thai e altre, la Cina ha imposto la sudditanza con la forza. Addirittura rispetto a Taiwan, territorio e popolazione sono considerati alla stregua di una provincia ribelle che prima o poi bisognerà far rientrare nei ranghi, con le buone o le cattive. Questo stato di cose potrebbe ricadere nel novero infinito di prevaricazioni che tutti gli stati esercitano nei confronti di qualcuno se non costituisse un pericolo per la stabilità regionale o mondiale. Il fatto che la Cina consideri come proprie "questioni interne" delle rivendicazioni di autonomia di popolazioni non cinesi, anche alla luce di quello che sta succedendo nella ex-Jugoslavia, pone seri rischi alla sicurezza internazionale. Stiamo assistendo da vicino alla spirale perversa che viene dalla "integrità territoriale", dalla negazione di autonomia, dalle rivolte, dalle provocazioni, dalle repressioni, dalle pulizie etniche, dalle deportazioni, dagli esodi forzati, dagli interventi umanitari, dalla guerra aperta di una parte della comunità internazionale contro uno Stato sovrano, a prescindere dal parere del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite, dal braccio di ferro, dall'ostinazione ecc. ecc.
Quanto le componenti culturali e religiose possano influenzare la percezione e l'azione politica all'interno dello stesso quadro asiatico e all'interno dello stesso sistema cinese è particolarmente evidente nella questione tibetana. La Cina domina su una parte del Tibet come Regione Autonoma, su un'altra, il Qinghai, come Provincia. In Tibet vivono 2 milioni di tibetani, in Qinghai e Gansu 6 milioni. Fino al secolo scorso il Tibet era svincolato, anche se formalmente tributario del potere imperiale cinese. Lo stesso potere imperiale cinese, però, con l'ultima dinastia Qing, era "moralmente tributario" del Tibet in quanto riconosceva il potere del lamaismo tibetano come massima autorità religiosa dell'impero. Questa situazione di reciproco tributo in effetti garantiva potere ed autonomia ad entrambe le entità. Era il classico sistema imperiale. Il sistema è poi crollato ed anche gli equilibri sui quali si reggeva il rapporto tra i popoli. Ora il Dalai Lama, dopo aver cercato di recuperare l'indipendenza del proprio paese, si accontenterebbe dell'autonomia culturale del Tibet. In questo caso il massimo leader religioso del mondo buddista dimostra di non aver percepito il cambiamento di politica avvenuto in Cina. Ritiene di aver a che fare con un sistema imperiale in cui la soggezione formale sia sufficiente a mantenere i rapporti. Dimostra, inoltre, di non aver percepito quali cambiamenti radicali siano avvenuti nella ideologia dei cinesi. In effetti, la richiesta del Dalai Lama è, agli occhi dei cinesi attuali, ancora più pericolosa e meno accettabile dell'indipendenza e della cessione di territori. Con la cosiddetta autonomia culturale il Dalai Lama, il Lamaismo, la cultura lamaista religiosa e sociale estenderebbero la propria influenza sul Tibet, sul Qinghai, sul Gansu, sulla Mongolia interna e perfino su quella esterna, visto che anche i mongoli sono di religione lamaista. Un terzo del territorio cinese attuale sarebbe soggetto alla cultura (e quindi all'ideologia) di un popolo non cinese. E questo non può certamente essere né accettato né proponibile da parte di qualcuno che comprenda le differenze culturali.
Su un piano diverso, si deve anche considerare che se esistono canoni filosofici e religiosi (in particolare confuciani) che guidano i paesi orientali nella loro visione del mondo, il ruolo della Cina moderna si è notevolmente modificato con l'immissione del maoismo. Ufficialmente la Repubblica Popolare Cinese (RPC) ha adottato il pensiero di Marx e Lenin interpretato e adattato alle esigenze cinesi da Mao Zedong che, con questa operazione, ha in effetti sviluppato un proprio pensiero originale paradossalmente molto più vicino al pensiero classico dei Moisti (dal maestro Mozi) e dai neo confuciani (XI e XIV sec.) che non al marxismo-leninismo sovietico.
Il maoismo ha avuto un ruolo pregnante in tutto lo sviluppo del pensiero cinese moderno e se è totalizzante nei riguardi del profilo delle generazioni scolarizzate fino agli anni ‘80, è ancora estremamente influente in quelle successive. Di certo è l'asse portante della prassi e della percezione della leadership cinese che deve il proprio potere al Partito voluto da Mao e al suo impianto ideologico. L'abilità e l'elasticità del sistema filosofico della Cina comunista sta nell'aver recepito anche le innovazioni drastiche (e per certi versi ambigue) di Deng Xiaoping e di averle inserite nel quadro di riferimento ideologico (statuto del Partito) e istituzionale (Costituzione) alla pari del marxismo-leninismo-maoismo. Con una sottile, ma determinante differenza: il partito e la Cina si fondano sul pensiero di Marx, Lenin e Mao e sulla teoria di Deng. Quindi la base ideologica è salda per i primi tre (il pensiero è staccato dall'applicazione e quindi inalterabile e inattaccabile anche da parte dei fallimenti delle sue applicazioni) mentre la teoria deve essere ancora dimostrata.
La RPC, come stato sovrano, quindi, si è staccata notevolmente dal filone tradizionale della stessa cultura sinocentrica classica rimasta viva invece in Giappone, a Singapore e Taiwan oltre che in tutte le comunità dei cinesi d'oltremare formatesi in tutto il Pacifico in secoli di emigrazioni. Sono rimaste però nel popolo e nella mentalità molte radici ideali di carattere religioso, dando al termine religione un significato completamente diverso da quello occidentale monoteistico di stampo giudaico-cristiano. La grande espansione della setta Falun Gong che in soli 5-6 anni ha fatto circa 100 milioni di adepti in Cina e nel resto del mondo si è innestata in una tradizione e in un sistema di pensiero che il regime comunista non ha potuto e per certi versi non ha voluto sradicare. La reazione del Partito di fronte alla setta (con la messa al bando e gli arresti) è da un lato tradizionale, con la repressione che periodicamente anche gli imperi effettuavano, e da un altro ideologica laddove il ritorno massiccio di pratiche religiose o superstiziose mette in pericolo il potere centrale comunista che tende a conservarsi riaffermando la propria ideologia: il materialismo dialettico. La percezione di pericolo del potere centrale è ovviamente giustificata, anche se i metodi di affrontare la crisi non sembrano adeguati né alla portata del fenomeno né ai rischi che la forzata clandestinità di un movimento popolare, peraltro sostenuto da forti lobbies di potere interno ed esterno, può comportare. Anche in questo senso la realtà cinese della RPC si è distaccata dal resto del mondo asiatico. Molti studiosi cinesi si rendono conto di questo distacco sostanziale, ma ritengono di essere i veri depositari della cultura cinese in senso lato e quindi ritengono che nessuno straniero sia in grado di comprendere la cultura cinese e che neppure i cinesi che hanno lasciato la Cina possano considerarsi esperti di cose cinesi. E' una posizione non scevra da una certa arroganza che però ha un senso di verità. Di certo i non cinesi non sono in grado di comprendere intimamente e in tutte le sue sfumature la cultura cinese. Di certo solo chi non è vissuto negli ultimi cinquant'anni nella Cina comunista e non è stato soggetto ai continui esperimenti sociali e umani e non ha sopportato il massacrante bombardamento ideologico ed educativo può esprimere giudizi equilibrati. E' però anche vero il contrario. Chi è rimasto in Cina in questo mezzo secolo ha assimilato una lente distorcente in più nei confronti degli altri cinesi, del mondo asiatico e soprattutto del mondo occidentale. Si potrebbe osservare che se c'è voluto più di un secolo per disinnestare dalla cultura feudale (ma non troppo) il mondo giapponese e avvicinarlo (ma non troppo) alla logica industriale e capitalistica occidentale, chissà quanti secoli ci vorranno per disinnestare la cultura feudal-comunista e avvicinare il mondo cinese alla cultura occidentale. Purtroppo, o per fortuna, non ritengo che sia così. Nei decenni di maoismo la Cina si è fatta esportatrice dell'ideologia ponendosi addirittura in concorrenza con quella sovietica e antagonista dell'occidente. Questa leadership ideologica e politica, esercitata nei riguardi di paesi del terzo mondo, è stata improntata ad una sorta di concezione imperiale classica con tanto di potere di imposizione di tributo ma anche di dovere di protezione e aiuto politico ed economico. Durante tutta la guerra fredda (ma per la Cina fino alla morte di Mao - 1976) di fatto il sistema imperiale è stato esercitato da tutte le maggiori potenze: gli USA in occidente, il Giappone nel sud-est asiatico, l'URSS in Europa orientale e Asia centro settentrionale e la Cina nei riguardi di una variegata schiera di "non allineati" africani e altri sparsi un po' ovunque. Questa situazione di comune gestione di uno stesso potere imperiale ha in effetti reso più coerenti i tre cerchi di potere almeno nelle logiche politiche. All'avvento di Deng la politica di impegno ideologico si è smorzata e da esportatrice della rivoluzione la Cina è diventata importatrice di ricchezza ed esportatrice di prodotti richiudendosi nel ruolo di salvaguardia e consolidamento delle aree acquisite. Nel frattempo, uno degli altri due imperi si è dissolto e il terzo sta mutando la propria politica da imperiale a egemone, con diritto di guida e salvaguardia dei propri interessi ovunque. Per la Cina questo cambiamento imprevisto ha comportato un riallineamento del proprio atteggiamento politico in un momento di grande impegno economico e istituzionale. Si è riproposta l'occasione per assumere un ruolo regionale e globale di preminenza, ma senza le premesse economiche perché possa esercitarlo da grande potenza in una nuova logica mondiale che vede soltanto la componente economica. E ancora una volta le incomprensioni si sono accentuate. La logica però è comune e giustifica la previsione di un rapido progresso di comprensione almeno al livello di gestione del potere.

D. La crisi del Kossovo sembrava interessare la Cina in modo marginale fino alla notizia dell'errore, un errore che sembra essere stato commesso dall'intelligence occidentale, del bombardamento dell'Ambasciata cinese a Belgrado. Come inquadrare il tipo di reazione popolare a Pechino?

R. L'incidente di Belgrado, se di incidente si è trattato, ha fornito alla Cina un ottimo spunto per riproporsi da protagonista sulla scena mondiale. E' servito anche per assumere un ruolo "non indifferente" nella questione del Kossovo. L'azione della NATO, oltre a molti aspetti politico-militari di novità rispetto alla gestione delle crisi del passato, ha prodotto l'esautorazione dell'ONU da una vicenda che riguardava una questione interna di uno stato sovrano. Una tale situazione avrebbe dovuto essere gestita dal Consiglio di Sicurezza, come prevede la Carta delle Nazioni Unite, ma l'avallo dell'ingerenza umanitaria e il fallimento dei negoziati hanno determinato, di fatto, l'estromissione dal ciclo decisionale della Cina e della Russia. Non si può escludere che questa sia stata una mossa predeterminata delle stesse potenze interessate nella speranza, che per molti e per gli americani stessi era una certezza, che la Serbia capitolasse in pochi giorni di bombardamenti. Russia e Cina potevano quindi tranquillamente assolvere il ruolo di sdegnoso distacco e sostegno platonico della Serbia contando poi, eventualmente, sulla possibilità di limitare i danni politici per la Serbia una volta battuta. La situazione operativa di iniziale incertezza ed esitazione, la nebulosità delle previsioni sull'azione militare, la mancanza di un end state strategico-operativo ben definito, l'impressione di disaccordo politico in seno all'Alleanza, l'ostinazione della Serbia e il dramma gigantesco delle popolazioni kossovare, che difficilmente sarebbe stato gestibile al di fuori del Kossovo stesso, avevano indotto a pensare che l'azione della Nato si sarebbe esaurita in breve tempo. O per divergenze interne, o per autolimitazione degli obiettivi e delle capacità operative. Non c'erano dubbi sul successo tecnico delle azioni militari dell'alleanza, ma si intravedevano spazi per successi politici anche da parte dei "perdenti" e dei loro sostenitori. La Cina era uno di questi e, probabilmente, aveva tenuto un profilo basso proprio per tentare di ridiscutere sul tavolo globale ciò che era perduto sul terreno locale. La Cina si è così trovata esclusa di nuovo e gli effetti di questa marginalità nel dialogo fra grandi si sono fatti sentire presto nel dibattito per l'ammissione al WTO e nel fallimento dei colloqui diretti tra Clinton e il premier Zhu Rongji. Questo quindi il quadro politico di riferimento nel quale l'incidente di Belgrado è sembrato giungere a proposito sia per i cinesi sia per i falchi dell'azione di guerra che vedevano nell'iniziativa del G8 la possibilità che la gestione della questione kossovara rientrasse nell'ambito ONU prima che la "vittoria" fosse conseguita. Senza entrare in speculazioni dietrologiche sulla natura dell'incidente, sulle polemiche in relazione a presunte défaillance dei servizi di intelligence o sulla tesi perversa di una azione deliberata della Nato contro la sede diplomatica di uno dei paesi del Consiglio di sicurezza proprio per far fallire qualsiasi iniziativa negoziale, la situazione obiettiva dopo l'incidente ha visto il rallentamento dell'iniziativa ONU-G8, la Serbia è stata sottoposta a pressioni più pesanti, la Russia si è trovata in affanno e la Cina, dopo aver protestato violentemente e pesantemente per un paio di giorni, ha visto aumentare le proprie chances di ammissione al WTO. E' sull'onda emotiva delle scuse di Clinton alla Cina che vanno inquadrate anche le iniziative del Presidente di estendere per un anno lo status di Main Favoured Nation (MFN) alla RPC, in attesa dell'ammissione al WTO. Ma sono state proprio queste nuove chances ad innescare la reazione dell'opposizione repubblicana negli USA che con rinnovato vigore ha attivato la campagna anti-presidenziale usando qualsiasi argomento per presentare la Cina come un demonio e l'amministrazione Clinton come corresponsabile del potenziamento della minaccia cinese. Il rapporto Cox sullo spionaggio cinese in America, già noto a dicembre dello scorso anno, viene ripreso proprio pochi giorni dopo la rappacificazione tra Cina e USA.
Questa la situazione, piuttosto ingarbugliata ma abbastanza plausibile, sul piano politico. Non meraviglia perciò che la Cina abbia cercato di trarre il massimo vantaggio da una situazione incresciosa che probabilmente nessuno ha voluto, ma che, pure in caso contrario, non sarebbe certamente stato per aiutare la Cina stessa. Pechino ha adottato una manovra di normale strategia orientale, ma non solo, che impone di trarre beneficio anche dai cadaveri (stratagemma n. 14).
L'episodio di Belgrado ha anche richiamato l'attenzione del mondo su un fatto che apparentemente sembra di costume o di educazione, ma che ha una grande valenza nelle considerazioni strategiche: l'indignazione popolare cinese. E' qualcosa di profondamente diverso dal concetto occidentale di opinione pubblica. La reazione popolare in Cina è una componente parzialmente istituzionalizzata, parzialmente costruita, e parzialmente genuina della politica. E' istituzionalizzata perché nel regime comunista cinese, ma anche nella concezione confuciana ed imperiale, l'indignazione del potere (del sovrano) nasce dall'indignazione del popolo. Nel codice penale cinese un delitto non è tale in assoluto ma soltanto in relazione allo scandalo pubblico che scatena e all'indignazione popolare che suscita. Quindi, questa indignazione è lo strumento interno che legittima il potere ad assumere le misure necessarie. Più grande è l'indignazione, più determinata e drastica è l'azione del potere contro i responsabili. Per agire contro la Nato, gli USA, l'Europa o il mondo intero c'è bisogno di indignazione popolare. Un momento estremamente favorevole e giustificante per l'indignazione è la situazione di dolore durante la commemorazione di defunti o di caduti. Le più grandi e devastanti manifestazioni di piazza cinesi sono nate durante le celebrazioni funebri. Gli stessi disordini di Piazza Tiananmen sono nati durante i funerali dell'ex presidente del partito Hu Yaobang. Il rito della morte sembra essere necessario al rito dell'indignazione e questa al rito della reazione. Il meccanismo è antico e viene eseguito con precisione cronometrica. La protesta è istituzionale anche nel senso che viene organizzata e gestita da organizzazioni sotto il controllo istituzionale per evitare che degeneri o prenda la mano provocando danni e conseguenze irreparabili. E' parzialmente costruita e provocata nel senso che è innescata con appropriate azioni di comunicazione e nei modi più appropriati.
Il regime dopo anni di educazione ideologica sa quali sono le leve comunicative da attivare per generare la necessaria indignazione. Tuttavia, nessun motivo istituzionale o nessuna predisposizione sarebbe efficace se non ci fosse un fondo di disagio genuino su cui innestare la reazione. Per quanto riguarda le reazioni contro gli stranieri, la Cina è nota per il substrato di xenofobia sempre latente. Nel caso dell'America, vi è poi un rapporto di ammirazione/odio. L'America è il modello preferito dai cinesi. Lo stile di vita, la ricchezza, la libertà, la potenza militare, la supremazia economica, la vocazione mercantile, la politica imperiale, il dominio assoluto nella tecnologia sono tutti fattori che attirano i cinesi e che costituiscono i fari per la rinascita della nuova Cina. Se non ci fosse un'America così, la Cina se ne dovrebbe inventare una in modo da stabilirla come traguardo, come obiettivo e come avversario. L'essenza della politica è la contesa, la guerra stessa è contesa politica, quindi l'oggetto e il soggetto della contesa motivano i sacrifici e le speranze di tutto un popolo. Per questi stessi motivi l'America capitalista opulenta e arrogante è odiata dai comunisti, poveri e altrettanto arroganti. Una manifestazione contro gli americani o contro i servi degli americani (così siamo visti noi della Nato) è quindi la cosa più semplice da provocare. La rabbia che si è vista nei giovani è genuina, il rischio che questa rabbia degeneri in violenza criminale e in atti di devastazione incontrollata è altissimo. Dove può portare il meccanismo di emulazione e di autosuggestione di una folla di cinesi è qualcosa che ogni straniero teme e che almeno una volta ha potuto osservare con costernazione per i motivi più futili o incomprensibili.
Allo sdegno popolare si affianca poi quello delle istituzioni che però è sempre freddamente calcolato. L'emotività di un dirigente cinese per questioni politiche è inversamente proporzionale alla gravità della situazione. Anche l'interpretazione dei fatti è funzionale all'azione politica o al mito dell'avversario. Si è potuto vedere che i cinesi non hanno creduto alla tesi dell'incidente (tre missili da tre differenti direzioni su un unico bersaglio non ci arrivano per caso), ma non hanno neppure creduto alla tesi delle coordinate dell'obiettivo sbagliate grazie (si fa per dire) alle mappe vecchie di Belgrado passate dalla CIA. Eppure, in termini tecnici sarebbe una cosa plausibile (anche se deprimente) e in termini politici sarebbe una onorevole giustificazione per delle scuse ufficiali che comunque Clinton ha ampiamente dato. La Cina però non può accettare questa tesi proprio per l'ammirazione/odio che ha per gli USA e per i nuovi miti che essi rappresentano. I missili americani sono dell'ultima generazione, sono di tecnologia elevatissima, non possono sbagliare; i servizi segreti americani sono i migliori del mondo, i più spregiudicati, i più dotati di mezzi e tecnologie, non possono sbagliare; la macchina militare Nato è la più avanzata del mondo non può sbagliare. Ergo, l'hanno fatto apposta!
All'avversario modello si può perdonare la cattiveria, ma non la stupidità o l'inefficienza. L'avversario deve essere all'altezza altrimenti la competizione e l'emulazione cadono. Meglio credere che gli americani abbiano ordito un machiavellico piano per destabilizzare l'intera situazione nei Balcani a spese dell'unico interlocutore in grado di condizionare la loro egemonia: la Cina. E' un fatto grave, ma che giustifica la competizione con un avversario degno della Cina.



D. E', secondo lei, possibile che la Cina abbia trovato un sistema economico originale, basato su un tentativo di innestare, comunque di connettere, un'economia di mercato su un modello sociale comunista? Questo processo avrà a suo avviso, prospettive di successo o di fallimento?

R. Per noi occidentali il sistema ideato dai cinesi non solo è originale ma incomprensibile e improbabile. Per i cinesi è forse l'unica cosa possibile e plausibile. Se funzionerà per i nostri parametri di giudizio è tutto da verificare e probabilmente darà esito negativo. Per i parametri cinesi e di regime ha già dimostrato ampiamente di funzionare e verrà fatto funzionare. Quali sono i parametri occidentali e quali quelli cinesi? Da un sistema comunista che si dà all'economia di mercato in occidente ci si aspetta protezione sociale, produttività, occupazione, stabilità interna, sviluppo, democrazia, rispetto dei diritti umani, investimenti in strutture sociali, apertura dei mercati, concorrenza, supporto all'imprenditorialità privata, salvaguardia di quella pubblica, equità sociale, equità fiscale, pari opportunità, decentramento amministrativo, e così via. Tutte cose o utopiche o in contraddizione reciproca. E' evidente che in questi termini il progetto cinese non potrà che fallire.
Secondo i parametri cinesi però ha già ottenuto grandi successi e, con opportune ma naturali trasformazioni, ancora più ambigue secondo i nostri parametri, proseguirà sulla via del successo per diversi anni fino a quando le dinamiche sociali non prenderanno il sopravvento e forzeranno il regime a nuovi cambiamenti di rotta. L'evento della setta Falun Gong è uno degli innumerevoli esempi di tali dinamiche. Il successo del sistema cinese sta innanzitutto nel mantenimento di un sistema politico che è ormai fallito in tutto il resto del mondo. La caduta dell'URSS ha costituito un grande insegnamento per la Cina e, paradossalmente, è avvenuta proprio mentre la Cina, dopo i fatti di Tiananmen, era ghettizzata e ignorata dal resto del mondo. Essa ha avuto tempo di guardarsi in casa, eliminare le potenziali faide interne e ripensare al piano economico cercando di raffreddare un'economia che si stava surriscaldando. Il successo sta nell'innalzamento reale del livello di vita generale, nell'apertura di alcuni mercati, nell'ingresso in maniera potente nel circuito finanziario ed economico mondiale. Il successo sta nella riforma agraria di dimensioni epocali, nella produttività delle aziende pseudo-private, nell'aver innescato una euforia popolare che perdona tutto al regime in vista di un futuro diverso. Il successo fondamentale sta nell'aver ridato la speranza ad un popolo mortificato dagli altri e dai propri governanti. Per tutto questo, il sistema dell'economia socialista di mercato ha già vinto. Tutti gli altri fattori vanno visti nell'ottica interna cinese, con obiettività e pragmatismo. Produttività delle aziende di Stato: non avrà ripresa, continueranno a perdere e lo Stato, in una forma o nell'altra, continuerà a mantenerle. Ognuna di esse impiega personale e con il sistema previdenziale cinese ogni fabbrica non paga solo i salari agli operai ma anche le pensioni di vecchiaia e le tasse al governo provinciale o centrale. Le aziende più disastrate saranno però dismesse e allora la disoccupazione aumenterà. Equità sociale: non si realizzerà mai. L'eguaglianza nella povertà è l'obiettivo raggiunto dal regime comunista durante il maoismo. L'eguaglianza nella ricchezza per un popolo così numeroso è un'utopia alla quale i dirigenti cinesi non hanno mai pensato. Deng ha autorizzato alcuni cinesi ad arricchirsi perché trascinino gli altri e allora aumenterà la forbice tra ricchi e poveri. Ma i poveri saranno sempre meno poveri di quando erano tutti uguali. Forse questo non soddisferà tutti ma per un po' di anni terrà a bada le masse. Equità fiscale: una battaglia già persa due volte da Zhu Rongji. Il sistema fiscale cinese non decolla e fino a quando non decolla ci saranno evasori totali, ingiustizie, corruzioni e così via. Diritti umani: un regime impegnato in un'operazione di revisione così vasta e profonda non può sopportare né dissidenze interne né criminalità organizzata né sommovimenti sociali. L'apparato di repressione sarà sempre di più chiamato ad agire. I diritti dei cittadini saranno sempre subordinati a quelli dello Stato. Ma questa è anche una base della cultura orientale. Concorrenza sui mercati: sarà spietata. Ogni mezzo sarà ritenuto legittimo pur di produrre e vendere, qualsiasi cosa e a qualsiasi acquirente (dalle scarpe di pezza ai missili e alle testate nucleari). Acquisizione tecnologica: aumenterà ma sarà sempre soggetta all'occidente e al Giappone per mancanza di vera ricerca. D'altra parte un apparato di ricerca autonomo paragonabile a quello USA non è pensabile. Il gap di conoscenze è troppo grande perché si formino centri di studio autonomi. La Cina però da oltre 20 anni sta investendo in studenti all'estero. Migliaia di scienziati formati negli USA e altrove sono già rientrati e alimentano buoni laboratori. Alcune nicchie tecnologiche di carattere strategico sono già operative. Inoltre l'apparato di acquisizione illegittima di segreti tecnologici, industriali e commerciali è già all'opera da tempo e dà ottimi frutti.
In sostanza i compromessi che la Cina deve fare con l'ideologia ufficiale e le limitazioni che deve ammettere sono tali e quali a quelle di un qualsiasi altro paese in via di sviluppo che si preoccupi anche di conservare un determinato regime di potere. Di qui una previsione politica: in Cina il sistema comunista (o la cosa con caratteristiche cinesi) è solido. Se qualcuno pensa che sia al limite o che possa essere messo in crisi dalle evoluzioni economiche e sociali oppure che possa essere scardinato ideologicamente sbaglia. Il regime cinese può soccombere soltanto a causa di se stesso: nella lotta per il potere o nel frazionamento di tale potere centrale a favore di entità regionali. E' l'unica possibilità realistica e posso tranquillamente azzardare a dire che non è immediata. Lo stesso movimento popolare del Falun Gong o delle altre centinaia di sette è alimentato da una parte del potere centrale che in esse ha trovato terreno di coltura per ripresentare proposte politiche di estrema sinistra già viste e sperimentate sia nelle campagne contro la cosiddetta "destra" sia nella rivoluzione culturale. Eventi che hanno massacrato fisicamente e psicologicamente milioni di persone, purgato una parte della classe politica, ma che tutto sommato non hanno modificato l'assetto del potere.

D. Il suo libro si conclude con il gioco delle ipotesi, un gustosissimo "gioco diacronico" che mette a confronto il Re Wen, il suo Primo Ministro Sizi ed il suo stratega Mizi sullo scenario strategico attuale. Può provare a far proseguire il ragionamento dei tre illustri personaggi sul ruolo dell'Europa nello scacchiere politico, economico e militare mondiale?

R. Re Wen aveva dormito male quella notte. L'abbuffata della cena a base di maialino grasso di Shanghai gli aveva procurato un sonno agitato da incubi e da una specie di infausto presagio. L'America avrebbe osteggiato l'ammissione al WTO, i repubblicani avrebbero messo in crisi Clinton proprio per la sua politica di global engagement con la Cina e la vita dei cinesi e per i cinesi in America sarebbe stata durissima a causa delle accertate attività di spionaggio industriale e nucleare. Chiamò i consiglieri. Il primo ministro Sizi arrivò per primo e si mise in silenzio ad aspettare. Aveva le stanze nel padiglione adiacente ed era abituato all'umor nero mattutino del sovrano, ma non cercò in alcun modo di sollevarlo. Aspettava che arrivasse il generale Mizi e che semmai fosse lui a prendersi la prima sfuriata della giornata. Mizi arrivò poco dopo e guardò di sottecchi Sizi per cercare di capire se ci fosse già stato un colloquio con il sovrano. Re Wen non li guardò neppure e con voce impersonale disse: "L'America non ci vuole e forse non ci merita. La partnership strategica concordata con Clinton non verrà mai accettata. I repubblicani e i loro amici taiwanesi vinceranno le prossime elezioni. Tutti i paesi del Pacifico aderiranno al piano della TMD (difesa missilistica di Teatro) e tutte le nostre potenzialità missilistiche saranno neutralizzate mentre quelle americane, coreane, giapponesi, taiwanesi e chissà di chi altro saranno invulnerabili. La nostra libertà d'azione nel mare cinese meridionale sarà limitata. Taiwan alzerà la testa. L'India pure. Le linee di credito saranno ridotte fino a farci ripiegare su noi stessi. Le nostre esportazioni in America saranno boicottate e le importazioni di petrolio ci costeranno di più. Ci rimangono due possibilità: allearci con la Russia o cercare una partnership con l'Europa. Cosa ne dite?". Sizi, ingannato dal tono distaccato, si affrettò a prendere la parola per primo cercando di tranquillizzare il sovrano: "Maestà, il quadro appena fatto è pessimistico. Controlliamo l'entourage del Presidente e chi lo ha fatto rieleggere. Ci assicurano che i nostri rapporti non verranno messi in pericolo e anche se i repubblicani vincessero ricordo a vostra maestà che le aperture più significative le abbiamo avute proprio con presidenti repubblicani..." Stava per proseguire quando si accorse che re Wen era diventato paonazzo. L'urlo lo beccò mentre accennava ad un sorriso ingraziatore e imbarazzato: "Insolente! La situazione sulla quale dovete esprimervi è quella descritta!".
Il primo ministro si volse immediatamente a Mizi sperando che questo intervenisse, ma il generale stava ancora profondamente inchinato con la faccia a terra. Sizi era sicuro che stesse ghignando. "Avanti parla!" gli intimò Wen e allora il ministro raccolse alcune idee e cominciò a farfugliare: "Maestà, l'Europa e la Russia sono soltanto due espressioni geografiche. Tra le due chi può avere capacità di ricompattazione politica è comunque la Russia. Possiamo quindi dedicarci a tessere limitate relazioni con questo paese tenendo però ben presenti alcune cose: che ci ha ingannato già una volta, che è trattabile quando è disfatta e intrattabile quando è potente, che confina con noi e potrebbe mirare ai nostri territori, che non può darci nulla di più di quanto già possediamo, che concorre con noi per aiuti dai mercati finanziari mondiali e che è preda di una vasta criminalità che sarà difficile reprimere e controllare. Con la Russia la partnership strategica è possibile e auspicabile ma non si realizza in tempi accettabili. E comunque non farebbe paura a nessuno, perché sia noi che la Russia abbiamo bisogno di soldi, tecnologia e stabilità. Gli eventi indicati da vostra Maestà si potrebbero verificare in uno-due anni e in questo periodo la Russia sarà ancora un marasma".
L'Europa politicamente non esiste e non esisterà per molto tempo. La moneta unica doveva essere il primo passo per l'unità politica. E' soltanto riuscita ad essere vassalla del dollaro e sta procurando grossi danni agli europei e a noi. A noi sottrae capacità di penetrazione nei mercati perché favorisce nel breve termine le esportazioni europee, agli stessi europei nuoce perché nel medio termine innalza i costi delle importazioni di materiali strategici e dell'energia che si pagano in dollari. Fra l'altro, con l'Europa non c'è neppure un interlocutore stabile. Questa sinistra che è al potere in Gran Bretagna, Francia, Germania, Spagna e Italia è solo apparentemente omogenea. E' liberal dal punto di vista ideologico e conservatrice dal lato economico. Sono proprio questi governi che faranno aumentare la disoccupazione e che privatizzeranno le imprese di stato svendendo e decapitalizzando ingenti patrimoni. La potenza egemone sembra ora che sia la Gran Bretagna, ma soltanto perché è completamente allineata con gli USA. La Germania sta silenziosamente compattandosi, dividendo i costi della riunificazione con tutti gli altri, ma non ha interesse a condurre una coalizione europea. La Francia, a parte le velleità, ha interessi nazionali ben più importanti di quelli europei. L'Italia è divisa tra la vocazione europea, l'impegno atlantico e la necessità mediterranea. Da essa non ci si può attendere né una politica univoca né una soluzione dei problemi sociali ed economici. L'Italia è poi quella più esposta all'esplosione dei Balcani. Dovrà riscoprire la vocazione balcanica e qui si troverà, con tutta l'Europa, in contrasto con la Turchia, la Grecia, la Bulgaria e la Russia stessa. Maestà, per il momento non ci resta che continuare la politica degli accordi bilaterali con i singoli paesi europei. Una cosa dispersiva, ma che può dare i propri frutti. Direi perciò che non dovremmo favorire nessuna accelerazione del processo unitario, non tanto perché ci minaccerebbe, quanto perché, per riequilibrare le disparità socio-economiche interne, l'Europa unita avrebbe bisogno delle stesse cose che servono a noi e ai Russi: capitali, occupazione, esportazioni e tecnologia. E' da una parte quello che si aspettano gli americani: la realizzazione di un mondo interamente sotto piano Marshall. Dipendente dal capitale mondiale gestito dal Fondo Monetario Internazionale e dalla Banca Mondiale in mano agli americani, dipendente dal mercato delle esportazioni e dalla tecnologia americana. La spinta che regge gli USA attuali nonostante il deficit commerciale e il debito pubblico da capogiro è proprio la prospettiva che il sistema ‘capitale-produzione-tecnologia' americano trovi sbocco in piani di cosiddetti aiuti o di sviluppo. Clinton l'ha detto chiaramente: «dobbiamo favorire la costituzione delle democrazie di mercato perché noi siamo il paese economicamente più forte e il nostro futuro è nell'abbattimento degli ostacoli che impediscono l'espansione del mercato». Sizi aveva preso coraggio mentre parlava e terminò con un tono deciso, quasi declamatorio. Tacque e si inchinò.
Re Wen si era calmato, ma era ancora accigliato. Il progetto di partnership strategica nella sua mente era un patto tra grandi. Le decisioni dei grandi sono prese sulla parola, ma non sulle chiacchiere. La gestione degli affari globali non può essere una continua perdita di tempo o una maratona diplomatica senza fine. Avere molti interlocutori e per giunta senza potere decisionale non è partnership strategica ma solo esercizio dialettico. Rivolse lo sguardo a Mizi. Il vecchio generale guardava in terra e si riteneva fortunato che Sizi avesse parlato per primo. Tutto si poteva dire dell'infido primo ministro, ma non che non avesse capacità di analisi.
"Mizi e tu cosa ne pensi? Quante divisioni ha l'Europa?" Mentre parlava Re Wen sorrise soddisfatto per questa parafrasi di Stalin durante la seconda guerra mondiale (il Papa è contrario? Quante divisioni ha il Papa?). Spesso si meravigliava e si compiaceva della propria erudizione e intelligenza. Mizi colse il sarcasmo del sovrano e notò la perversa felicità di Sizi. Per il ministro la politica militare era soltanto l'arte di contare le divisioni corazzate, gli aerei e le navi da guerra. Una cosa da pallottoliere. Dissimulò abilmente il rancore e iniziò: "Maestà, dopo la brillante esposizione di Sizi, mi sento inadeguato a dare il mio contributo di pensiero. Concordo con la sua valutazione sulla Russia. Non ci servirà a molto ed è sempre pericolosa. Ma non possiamo ignorarla. Dobbiamo invece formare una linea comune di cooperazione perché tutta la buona volontà che mettiamo ora è un investimento per il futuro e, cosa che non guasta, la Russia ha prodotti strategici a buon mercato e una potenzialità di assorbimento dei prodotti cinesi enorme. Per quanto riguarda l'Europa, mi soffermerò soltanto a completare l'analisi del primo ministro con gli aspetti di mia competenza. Aspetti marginali rispetto a quelli politico-economici, ma prometto che non farò il conto delle divisioni. Ormai la politica militare va oltre il semplice esame delle forze proprie e dell'avversario. I generali non si devono limitare a contare le divisioni ma devono considerare le moltiplicazioni. Chiedo scusa a vostra Maestà dell'umilissimo gioco di parole, ma mi spiego. Oggi non ci si può fermare al calcolo della potenza, ma bisogna considerare i moltiplicatori di potenza. Non ci si può fermare ai calcoli razionali ma occorre anche fare quelli irrazionali. I moltiplicatori sono infatti diventati esponenziali e i rapporti tra i fattori in gioco sono irrazionali nel senso che sono rapporti tra entità incommensurabili. Non danno più risultati determinati e finiti, ma risultati interi seguiti da implicazioni (decimali) infinite senza ripetizioni periodiche. E' proprio l'Europa di questi giorni a darci la sensazione del valore dei moltiplicatori di potenza e degli sviluppi irrazionali del calcolo politico-militare. Durante l'aggressione americana alla Jugoslavia, alla potenza delle armi a tecnologia avanzata della Nato si è opposto il moltiplicatore esponenziale del nazionalismo serbo, della propaganda, dell'irriducibilità della volontà. I serbi sotto le bombe si raccontavano macabre barzellette sulla strapotenza della Nato. Chiamavano Windows 99 le proprie finestre incerottate perché non scagliassero frammenti di vetro durante le esplosioni. Dicevano che la via più breve per andare da Belgrado a Novi Sad (70 Km) era quella di andare ad Aviano perché da lì partiva un aereo ogni 30 minuti. Dopo oltre due mesi di distruzioni l'ironia stessa faceva da moltiplicatore della volontà di resistere. In queste condizioni un popolo non cede più. Chi cedono sono i politici o gli avversari. In quel caso l'irrazionalità del calcolo militare stava nel fatto che il risultato del rapporto tra i bombardamenti e gli obiettivi da conseguire non sempre era un numero finito. In Jugoslavia si è dimostrato che entrambi i parametri possono essere incommensurabili nel senso che possono anche non possedere un sottomultiplo comune. Il loro rapporto è un pi greco sempre diverso. Ecco che il bombardamento di una caserma di Belgrado che avrebbe dovuto causare la distruzione di un obiettivo militare, induceva i serbi alla pulizia etnica, questa provocava massacri, i massacri l'esodo, l'esodo il dramma dei rifugiati, i rifugiati l'emigrazione clandestina, questa il traffico degli scafisti e della malavita, e così via in una sequenza di decimali appunto infiniti e aperiodici e quindi imprevedibili.
La stessa strategia di Milosevic e dei suoi generali è sembrata più cinese che occidentale. Sono proprio molti dei nostri generali ad aver teorizzato e adattato il pensiero di Mao sull'iniziativa strategica alle guerre moderne in ambiente di alta tecnologia. E' un comandante di una nostra accademia militare che ha scritto: per combattere una guerra in ambiente di alta tecnologia in condizioni di inferiorità bisogna adottare il criterio «tu combatti a modo tuo, io combatto a modo mio e così io mantengo l'iniziativa». Il modo della Nato è stato il bombardamento, il modo serbo è stato la pulizia del Kossovo. E' indubbio che la capacità d'iniziativa è stata molto più ampia da parte serba che da parte Nato, costretta ad una non-strategia vincolata ad una sola opzione: bombardare.
In questo senso l'analisi di Sizi sulle prospettive dell'Europa, mio sire, è perfetta ma lacunosa proprio perché razionale.
L'Europa non esiste e militarmente pesa ancora meno che politicamente. Esiste però la Nato, che oggi è una emanazione del potere americano. L'azione della Nato in Jugoslavia è la prima operazione della nuova Nato e del nuovo concetto strategico. Conduce operazioni militari e avvia processi politico-sociali. Se fallisce in uno o l'altro degli obiettivi è il fallimento dell'intero sistema. Può fallire? Molti dicono che ha già fallito perché ha dilazionato oltre ogni logica e razionale aspettativa la soluzione del problema. E' vero, ma i risultati vanno verificati alla fine delle operazioni e non solo di quelle aeree. Io dico che la Nato comunque non può fallire perchè deve vincere ‘per costruzione'. Non ha alternative alla vittoria militare perché il mondo occidentale oggi non ha alternative al braccio armato della Nato. Quindi, a prescindere da ciò che succederà sul campo militare e di cosa accadrà ai kossovari, la Nato ha vinto finora con i bombardamenti e vincerà comunque alla fine. Almeno questa partita.
La coagulazione della Nato e il pilastro euroatlantico hanno però un punto debole proprio in questa ineluttabilità. Molti dei paesi che sono nell'alleanza continuano le operazioni perché ci si sono trovati. Non sono convinti, ma non possono tornare indietro e non lo faranno. Ma il futuro di questa Nato che impedisce elasticità e che non presenta onorevoli vie d'uscita né agli avversari né agli alleati non è roseo. Noi cinesi non ci saremmo mai cacciati in un tale vicolo cieco. Nel calcolo per i futuri interventi della Nato, che si presenteranno a stretto giro, contrariamente a quanto avvenuto finora, avranno il sopravvento i fattori esponenziali e le implicazioni ‘decimali'. Con il meccanismo dell'unanimità delle decisioni i prossimi interventi della Nato saranno veramente in pericolo. O si svolgeranno in maniera ambigua e indefinita, scatenando le opposizioni interne dei paesi membri o non partiranno proprio. La prima azione della nuova Nato potrebbe anche essere l'ultima.
Come influenza tutto questo la nostra prospettiva di ricerca di una partnership strategica? La politica americana di egemonia ha successo soltanto se si avvale di un braccio armato e politico internazionale. Quando è intervenuta da sola ha sempre perso, soprattutto nella nostra regione. Il raccordo tra America ed Europa oggi è dato da due fattori: la politica di sinistra e la funzione di proxy europeo dell'Inghilterra. La politica liberal che unisce USA ed Europa in questo momento ha introdotto un elemento irrazionale in più. Come hanno detto alcuni commentatori europei, i liberal (in America li chiamano "pinkocommies", comunisti rosa) fanno le guerre per le questioni di principio e non per gli interessi. Delle guerre di principio si conosce il principio, ma non la fine e il fine. (Chiedo scusa, maestà, dell'infelice gioco di parole). Le guerre di idee non hanno obiettivi concreti né sul terreno né sui tavoli politici. Combattono con mezzi materiali degli elementi immateriali. Non considerano né risorse né perdite, proprie o dell'avversario. Questa situazione è insostenibile per molti governi europei e comunque è l'antitesi dell'altra metà dell'America: quella repubblicana e conservatrice. La prospettiva, quindi, che la Nato finisca per spaccarsi e che USA e Gran Bretagna rimangano isolati a tentare di esercitare il ruolo di guardiani globali è concreta e per noi è anche augurabile. Da questa divisione può nascere un polo di solidarietà politico-militare esclusivamente europeo, equilibrato e più attento a perseguire interessi reali, obiettivi concreti e ad evitare le perverse implicazioni degli elementi irrazionali, dando vita ad una nuova identità europea. Non dico che gli europei potrebbero arrivare ad una unificazione politica, ma di certo potrebbero costituire una entità unitaria basata su interessi comuni e non su isterismi collettivi. Maestà, l'Europa è l'interlocutore privilegiato, ma soltanto se si distacca dalla Nato. Noi possiamo favorire questo processo, ma nello stesso tempo non dobbiamo dimenticare casa nostra. La Cina è in Asia e le vicende europee possono interessarci soltanto se assumono dimensione globale. Oggi la probabilità che la Cina assuma una dimensione globale soltanto per i fatti regionali asiatici è molto più alta di quella che l'Europa influisca in maniera determinante in Asia o nel mondo."
Mizi si inchinò fino a terra indicando di aver esaurito il suo discorso e Re Wen rimase alcuni istanti a riflettere. L'incubo notturno non si era dissolto e neppure i postumi dell'indigestione. Chiamò l'eunuco capo dei millecinquecento cucinieri di palazzo e annunciò: "Da stasera sono a dieta".


(*) L'Autore è stato Addetto Militare, Aeronautico e per la Difesa a Pechino dal 1993 al 1996.

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